A I Mods: rabbia e stile

I Mods: rabbia e stile

Gli anni ’50 volgevano al termine e con loro svanivano sulle frenetiche frequenze del rock’n’roll una delle prime sottoculture che avevano messo radici in Gran Bretagna: i Teddy Boys. Figli del dopoguerra e “restauratori” in brillantina dello stile edoardiano da cui il nome, appartenenti alla working-class e con le tasche sufficientemente tintinnanti di danari da spendere in abbigliamento e dischi americani, furono la prima manifestazione giovanile di ribellione contro tutto ciò che li circondava .E l’invenzione di uno stile proprio (prettamente working-class) che li circoscriveva dunque come nucleo a sé all’interno di un più vasto contesto sociale, fu il loro primo atto di insubordinazione; identificati come disadattati e teppaglia urbana, i Teddy Boys, con la creazione di una moda come espressione di appartenenza ad una diversa realtà, aprirono, in un certo senso, la strada, quasi dieci anni in anticipo, ai Mods. Differentemente dai loro avi degli anni ’50, l’élitario circuito modernista non ruotava intorno ad un’unica casta, essendo tagliato trasversalmente dall’upper, alla middle, fino alla classe più bassa; il fulcro non era la quantità di soldi in banca e nel portafoglio, ma come li si investiva da un’ottica “sartoriale”.

Cresciuti in pieno boom economico e beneficiari dell’opportunità di facili impieghi, fecero del motto” adotta, adatta, migliora” una filosofia di vita, attingendo a piene mani dal meglio che la moda del tempo offriva e riadattandola al proprio gusto e capriccio. Con uno sguardo perennemente fisso sulle tendenze europee con un’attenzione particolare a Francia ed Italia, proprio le proposte di queste ultime due nazioni influenzarono il nascente stile mod dal punto di vista estetico e comportamentale. Mod era la pettinatura french-style, la passione per la nouvelle vague o per l’immancabile ed irresistibilmente “fashion” sigaretta gauloise al lato della bocca; ma Mod era anche l’eleganza tutta italiana dei completi button-down, pantaloni stretti e scarpe a punta, con un occhio di riguardo agli accessori, proprio perché attraverso la cura maniacale e minuziosa del dettaglio passava la perfezione stilistica.

E soprattutto, italiana era l’essenza stessa di un Mod: lo scooter. La Vespa e la Lambretta, icone del progresso, erano sinonimo di eleganza, novità, strafottenza e modernità: debitamente cromate e provviste di una quantità di specchietti e accessori, erano il tratto distintivo che faceva la differenza, da mostrare con orgoglio e nonchalance per le vie più cool di Londra o davanti ai clubs notturni, cuore del modernismo.Vespa e Lambretta inoltre, resistevano a tutto, anche alla volubilità dei canoni estetici di questi raffinati “stylists”: già, perché la maniera di vestirsi non era standard ma in vertiginoso mutamento. “In “ e “out” variavano da un giorno all’altro, da una settimana all’altra, e decisamente “out” era farsi vedere due volte con il medesimo capo d’abbigliamanento (!).

L’abilità e la fantasia di reinventarsi costantemente ed individualmente mantenendo uno stile impeccabile era la prerogativa e la norma che permetteva di rivestire l’ambito ruolo di “face”, invidiati ed imitati portavoce di classe ed eleganza, e di venir accettati nei clubs underground ove l’orecchio esclusivista dei Mods poteva bearsi ed affinarsi con sonorità nere ( r’n’b, jazz, soul, ska jamaicano) ricercate ed oscure quanto il loro spirito assetato di novità ed originalità a tutti i costi. A quel tempo, in America, si era aperta la grande stagione della black music e parallelamente alla difficoltosa integrazione razziale, miriadi di artisti neri e di etichette indipendenti , spuntavano, arrivavano e percorrevano gli States alla disperata ricerca di un posto in classifica che avrebbe garantito soldi, successo e soprattutto rispetto; la conseguenza immancabile fu una sovrabbondanza di materiale vinilico di ogni genere destinato al buio e all’umidità dei magazzini di stoccaggio di Detroit, Chicago, New Jersey. Intanto, nel nord della Gran Bretagna, in città industriali come Manchester o Sheffield popolate dalla working-class, venivano aperte sale da ballo e clubs in cui decisamente “nera” era la proposta musicale dei djs, al contempo ballabile, spensierata e con liriche disimpegnate; niente di meglio,dunque, per operai che dopo una dura settimana lavorativa, non desideravano altro che alleggerirsi il cuore (ed i piedi) con melodie gioiose e raffinate insieme.

E l’attenzione manifestata per questo sorprendente sound anche da giovani di qualsiasi censo ed età ( i Mods appunto), agì da spinta propulsiva nella ricerca di brani di artisti sempre meno conosciuti: fu allora che le porte dei magazzini di stoccaggio americani si spalancarono e riversarono sulla Gran Bretagna una gran quantità di soul, r’n’b, jazz, ska, blues, mentre filiali di black-label come Tamla-Motown, Fontana, Oriole, aprirono qui le loro succursali, contemporaneamente a numerosi clubs sparsi ovunque. Ma nel 1964 gli individualistici Mods richiamarono, con il loro culto per la perfezione formale e lo spirito di competizione, la curiosità dei media, che li destinarono presto alla banalizzazione e alla massificazione. Riviste, programmi dedicati ai Mods ( “Ready, steady, go!” il più seguito nonché il più noto) e negozi d’abbigliamento in tema spuntarono in ogni dove ( fu proprio a questo proposito che il termine Swinging London venne coniato), simultaneamente a bands con cui questi giovani in Vespa e Lambretta potevano identificarsi. High Numbers (divenuti poco dopo Who) e Small Faces ne erano gli esponenti: artefici di una maniera innovativa di speculare sulle melodie e sulle metriche R’n’B, Blues, Soul, diluendole sapientenemente col beat e indurendole con arrangiamenti rock, definirono la loro musica “Maximum R’n’B” o “Freakbeat”, se con questa accezione se ne sottolineava la stravaganza (freak, appunto,stravagante,bizzarro) delle sperimentazioni e variazioni sul tema beat tout-court. E al richiamo di “My Generation”, di “ The kids are alright” o di “All or nothing”, a cui migliaglia di adolescenti in parka rispondevano e si riconoscevano, la gloria non tardò a giungere, coronando dell’alloro di portavoce del movimento Mod nonché di incontrastati maestri di stile ambedue i gruppi.

Ma mentre gli Small Faces, genuinamente mod per scelta e non per esigenze pubblicitarie, col massificarsi del movimento se ne allontanano perseguendo progetti più ambiziosi sebbene meno fruibili, gli Who ne sfruttarono al contrario la commercializzazione; band non Mod, s’improvvisò tale allorquando in quel preciso momento storico era ciò che stava andando per la maggiore e che in termini economici avrebbe reso di più alle loro tasche e a quelle del manager che impose loro i ricercati abiti e le raffinate pettinature moderniste. Roger Daltrey stesso, vocalist e frontman, dichiarò di essere un Rocker travestito da Mod e di amare questa parte, così protagonista negli anni ’60, ma che in realtà non si sentiva nell’anima, differentemente dal “collega” Steve Marriott con cui più di una volta aveva volentieri e trionfalmente condiviso il palco ( lo scalmanatissimo tour in Oceania di Who e Small Faces insieme, ad esempio). Ma nel 1965, ridotto a fenomeno mediatico nazionale, la cultura mod ne uscì svilita, perdendo quel carattere elitario che ne era l’essenza; proprio nell’istante in cui si affermò diventando mainstream, se ne decretò la prematura morte.

Se il ritmo che scandiva la vita di un mod era all’unisono con i suoi ascolti musicali, se la lotta contro la società si risolveva con il completo disinteresse verso di essa e con una rivolta stilistica portata ossessivamente avanti 24 ore su 24, magari coadiuvata da un sempre crescente uso di droghe, ebbene, la diffusione del “culto” modernista fiaccò anche questa bizzarra e invertita scala di valori. Una contraddizione interna inflitta da radio e tv ne accelerò la tumulazione; difatti, se la funzione di guida estetica e comportamentale, alla nascita del modernismo, era prerogativa delle osannate e invidiate “faces”,ora , con l’ingerenza da parte dei media, il loro ruolo e la loro importanza era venuta meno, e proprio i mezzi di comunicazioni erano subentrati prepotentemente al loro posto dettando, seppur in forma edulcorata per le masse, i canoni stilistici. Quando i programmi radio-televisivi iniziarono ad occuparsi dei mods e gli scontri fra questi ed i loro rozzi nemici rockers sulle spiagge di Brighton cesellavano le pagine dei giornali, bé , in realtà il movimento mod era già finito da un pezzo

. La rivolta dello stile aveva perso con la sua (filo)diffusione la ragion d’essere, l’impoverimento dei suoi connotati era degenerato nella standardizzazione di un tipo umano che non era più il risultato di un modo di percepire, reagire e reinterpretare la realtà in un’ottica individualistica, bensì in quella mediatica. Ed i veraci mods che si piccavano tuttavia di definirsi tali, si erano abilmente sottratti in tempo alle luci di questi ingombranti riflettori.. Nel frattempo (si era già entrati negli ani ’70), l’Inghilterra fiorente e rigogliosa che qualche anno prima avevano sfidato e combattuto a colpi di stile, era profondamente cambiata: il boom economico era ormai un lontano ricordo e ciò che ne restava era disoccupazione e disperazione. A questo quadro tutt’altro che idilliaco corrisposero dunque esigenze più immediate da parte di nuove culture giovanili nascenti, modellate su un’impostazione mentale decisamente più aggressiva e violenta; gli skinheads ad esempio, rampolli del sottoproletariato inglese, i rude-boys, figli di immigrati jamaicani che con gli skins condividevano la povertà e la passione per la musica nera, più tardi i punks, e certamente tutti, se non nemici, decisamente ostili ai frivoli mods. Ed i nuovi mods risorti dalle ceneri di coloro che se l’erano elegantemente svignata davanti al rullo compressore dei mass-media, nati sulle tribune della West-side dell’Upton Park( stadio dove il mitico West-Ham si allenava), si adattarono all’atmosfera respirata di nichilismo e precarietà, immettendo nel loro stile, pur tuttavia ancora ricercato, elementi più aggressivi,da strada, assumendo la nuova denominazione di hard-mods o Glory Boys.

Con gli skinheads dividevano le terraces dello stadio e tutto ciò che di violento ne conseguiva, e dagli skinheads subirono ed appresero influenze e varianti stilistiche, come i capelli molto corti( la testa rasata risale a molti anni dopo) e le bretelle; ma gli hard-mods erano pur sempre mods e dunque, seppur in misura minore dei loro antenati degli anni ’60, attentissimi all’abbigliamento e persino elitari. Vita da stadio e stile-mod divenne un’equazione indissolubile ed entrare a far parte del loro éntourage si rivelava difficile e comunque previo un lungo periodo di iniziazione. Musicalmente orientati verso il soul ed il northern soul (si ricordi che nel ’71 il celebre Wigan Casino aveva aperto i battenti dando il via ad infinite esplorazioni musicali black), i Glory Boys non vedevano affatto di buon occhio le bands (soprattutto inglesi) che devoti all’LSD, con i capelli lunghi e gli abiti sgargianti si definivano ancora mods; nondimeno avrebbero snobbato i “revivalisti”del ‘79 nati sotto la spinta del film “Quadrophenia”( cult-movie sulla storia di un mod, Jimmy), considerati non mod, eccezion fatta per quelli “ante-Quadrophenia” come Purple Hearts, Jam, o i Secret Affairs di Ian Page ad esempio.

I Secret Affairs non solo avevano quel sound soul che avrebbe conquistato i supponenti Glory Boys, ma provenivano, come loro, dai sobborghi londinesi, ed un sodalizio fra entrambe fu spontaneo e quasi inevitabile, tanto che Ian Page dedicò ai suoi accoliti un brano che ne divenne l’inno “Glory Boys” appunto. Ed i Glory Boys, dal canto loro, onorarono la band tatuandosene il nome o il simbolo( il buco di una serratura), all’interno del labbro inferiore, e seguendoli a guisa di scorta in tutte le tournée inglesi.

Ma l’atteggiamento volutamente provocatorio degli hard-mods non mancò di scatenare durante i concerti o nei clubs risse e violenze, tanto da guadagnarsi e far guadagnare ai Secret Affairs una reputazione poco rassicurante, destinata ad aumentare soprattutto a loro danno: durante il tour “March of the mods” si videro piovere addosso pinte vuote scagliate da un pubblico decisamente esasperato dalla cricca dei Glory Boys particolarmente distintasi in termini negativi! Nel frattempo, il crescente commercializzarsi del mod revival non incontrava affatto il favore dei duri e settari Glory Boys: coloro che non si ritirarono dalle scene stanchi di nuotare controcorrente, affluirono nei ranghi dei “nemici” skinheads o dei casuals, evoluzione naturale degli hard-mods che permetteva al contempo di portare avanti sia un discorso stilistico che calcistico, coltivando a tempo pieno la passione per il West Ham.

Difatti, quel revival che nel 1974 Paul Weller aveva contribuito sostanziosamente a creare con una riscoperta delle radici r’n’b, soul, jazz dei 60’s e che aveva permesso ai suoi Jam di diventarne illustri portavoce con un sound fra musica nera ed elementi punk propri del tempo, ora stava dissolvendosi: per l’ineluttabile principio dei corsi e ricorsi storici, come già era accaduto nel’65, anche ora i nuovi mods erano più influenzati dai media che dalle origini del movimento stesso. I dictat dei primordi erano stati inevitabilmente sostituiti con quelli di “Quadrophenia”: film culto prodotto nel ’79 dagli Who stessi e per loro ammissione ispirato dai Jam , diede alle novelle schiere di teenagers in scooter e parka qualcosa a cui rifarsi, risparmiando loro la fatica di retrocedere troppo nel passato.

E come gli scontri di Brighton occorsi a movimento finito, di nuovo, alle prime luci degli anni ’80 disordini fra mods e polizia si registrarono nelle coste inglesi. Ma laddove il modernismo stava esalando gli ultimi respiri, in Italia, l’uscita nell’80 di “Quadrophenia” nelle sale, non ne decretò la morte ma una sfavillante nascita. Tony Face, nostrano “modfather” che fu fra i primissimi a portare ed accendere nel Bel Paese la fiaccola del modernismo, batterista degli storici Not Moving e attuale frontman dei Link Quartet, ne diffuse il verbo attraverso concerti, serate, fanzines, raduni ( consuetudine quest’ultima, che continua ai giorni nostri con i due appuntamenti mod per eccellenza di Rimini e Lavarone) ,perché quello mod era e doveva essere uno stile vitanaturaldurante. Verbo che nel 1983 venne raccolto dalla band torinese Statuto e che divulga tutt’ora con successo, insieme a più o meno nuove formazioni come gli Storteaux, i Coleridge di Pordenone, i Made di La Spezia, i Minivip di Novara, testimoni della freschezza di un movimento mai realmente estinto. Perché come vuole il detto “Once a Mod, forever Mod”.

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