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R Recensione

8,5/10

Ween

The Mollusk

In vent'anni abbondanti di ascolti ho sviluppato una teoria: l'underground americano è una miniera d'oro e soprattutto ha creato il solo habitat dove possono germogliare e maturare realtà come i Ween. Non sono tuttavia in grado di spiegare con precisione la tesi: si tratta forse di una irripetibile combinazione di condizioni sociali e culturali, pensabile solo negli USA, che favorisce un processo creativo al tempo stesso oltraggioso, spavaldo e un po' naif. I Ween incarnano questo approccio disinibito e svincolato da ogni fardello “storicista” e sono naturalmente figli della provincia americana, più precisamente di New Hope, PA.

I Ween sono anche – in estrema sintesi, al netto dell'andirivieni di innumerevoli altri musicisti – due sedicenti fratelli, Dean e Gene Ween (quest'ultimo, all'anagrafe, Aaron Freeman), e già solo questo scherzetto maschera una precisa scelta di campo: siamo in orbita rock parodistico, tanto che che la critica li accosta a Frank Zappa sin dalle primissime incisioni.

Io quoto a metà: lo spirito è chiaramente imparentato con quello freak e inclassificabile del genio di Zappa, di Captain Beefheart e più in generale con un concetto di musica surrealista, post-moderno, eccentrico e distante da ogni tipo di classificazione. I Ween però possiedono qualcosa di tragico, un pathos che in Zappa è pressoché assente; i due sedicenti fratelli non sono solo dei buontemponi ma sono semiseri, ogni disco attraversa con un'agilità invidiabile stati emotivi tra loro antitetici, instillando nell'ascoltatore un dubbio destinato a non risolversi, in quanto risulta difficile capire dove finisca lo scherzo e dove cominci il dramma. È impossibile stabilire con certezza se si debba ridere a crepapelle o ammutolire per giorni. Sotto questo profilo, chi scrive nota diverse affinità con altri maestri underground quali gli Unrest, altra band che ha fatto della versatilità – anche sul piano emotivo - la propria bandiera.

The Mollusk” è la loro opera più celebre e accessibile: smussa gli spigoli di “Pod”, che (per restare in tema) in diversi momenti annegava la goliardia in un calvario di disperazione declinato in chiave ferocemente rumoristica; qui la scrittura si affina e il talento compositivo del duo prende il sopravvento, pur senza abdicare alle aspirazioni umoristiche di marca zappiana; la rifrazione della realtà diventa però più caleidoscopica, lo spettro dei generi si amplia a dismisura, la melodia spadroneggia.

La parola chiave è eclettismo, che risulta nella fattispecie quasi riduttiva: i Ween sembrano sottoporsi a una repentina metamorfosi ogni volta che decidono di incidere un nuovo brano.

La title-track, ad esempio, profuma di psichedelia da un chilometro di distanza, tanto che pare di ascoltare una versione meno ultraterrena dei Mercury Rev, con tanto di arrangiamenti per fiati lussureggianti; “Polka Dot Tail” cambia subito registro, come da titolo, e sfodera una tra le invenzioni melodiche più riuscite del loro intero canzoniere; “Cold Blows The Wind” dovrebbe invece fare invidia a gente del calibro di Nick Cave o di qualche oscuro outlaw country singer, perché fa pendere la bilancia in direzione pathos tragico, nonostante gli arrangiamenti siano bislacchi (il sintetizzatore che punge, gli archi eleganti); in tema di cantautori, impossibile non menzionare “The Blarney Stone”, dichiarato omaggio a Tom Waits e al suo registro vocale scartavetrato.

I'll Be Your Johnny On The Spot dà l'ennesima sferzata, muovendosi in orbita punk d'alta scuola e riavvicinando certe astruse spigolosità degli esordi, mentre “Waving My Dick In The Wind” è un gustoso scherzo pseudo-country a metà strada tra i Meat Puppets e i They Might Be Giants; “Mutilated Lips” spiazza ancora una volta, strizzando l'occhio a certe invenzioni dei Flaming Lips, con tanto di arrangiamento per chitarra superlativo.

Ocean Man” è pura nostalgia pop, venata di psichedelia westcostsiana, e scodella l'ennesima invenzione melodica capace di far cadere a terra la mandibola (al di là di ogni elucubrazione, i Ween sono prima di ogni altra cosa autori di prim'ordine), anche per le voci filtrate e l'atmosfera subacquea.

She Wanted To Leave” è canzone d'autore dalle venature grunge e la sua semiseria disperazione incornicia alla perfezione il mood dell'album, la sua sbandierata ambiguità, mentre “It's Gonna Be (Alright)”, un semplice folk-rock che può evocare persino le ballate dei Guns'n'Roses, è forse semplicemente la canzone più bella che i fratelli Ween abbiano mai scritto.

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zagor alle 2:00 del 13 gennaio 2020 ha scritto:

Pagina preziosa. Con loro mi ero fermato a "Pod".