Captain Beefheart
Trout Mask Replica
“ Quando mai un libro come ‘Guerra e Pace’ SCORRE?”. A domandarselo è una sgomenta librodipendente di mia conoscenza, che viene inondata dagli attacchi di panico se resta senza libri da leggere, che se va da qualche parte e c’è da aspettare qualcosa o qualcuno tira fuori prontamente il suo libro, che legge tremila pagine della Recherche di Proust come fosse la cosa più naturale del mondo. Se lo domanda per rispondere agli elogi piovuti su uno di quei libri da quattro soldi che tanto fanno impazzire il “grande pubblico” con quello che il grande critico letterario Giulio Ferroni chiama magistralmente “esclusivismo di massa”.
Faccio tutta questa introduzione per un motivo ben preciso: “Trout Mask Replica” di Captain Beefheart è l’equivalente in musica delle tremila pagine della Recherche o di una qualsivoglia opera letteraria definita “mattone”, appellativo che, col passare del tempo, è affibbiato sempre più a qualsiasi libro che non sia appetibile a tutti e che richieda un impegno particolare. Ascoltare TMR significa innanzitutto mettersi bene in testa che si vuole fare un’esperienza più o meno folle e sicuramente impegnativa.
Il disco “non scorre” per niente, nonostante sia essenzialmente formato da brani che sporadicamente eccedono la durata media della canzone.
E allora perché il mitico John Peel arrivò a dire che “se c’è stato qualcosa nella storia della musica popolare che potrebbe essere descritto come un’opera d’arte in modo tale che le persone coinvolte in altre aree dell’Arte potrebbero capire, quell’opera è probabilmente Trout Mask Replica”? Perché questo disco torna prepotentemente nelle classifiche dei critici (Scaruffi lo mette in cima alla sua leggendaria piramide, ma anche Lester Bangs ne capì la grandezza)? Perché è venerato da molti musicisti di area “indie”? Perché è riuscito a diventare molto influente sul rock che sarebbe venuto dopo?
Lo vedremo, il perché. Certamente è quasi impossibile trovare qualcuno che non abbia pensato tutto il male possibile di questo album al primo ascolto, me compreso. Ma ascoltandolo tante volte le cose cominciano lentamente a cambiare. È lì che capisci l’insensatezza dei tanti teoremi sulla “scorrevolezza” o sulla “semplicità”. Non esiste arte che scorre e arte che non scorre; non esiste arte semplice e arte complessa, anche perché tutto dipende dai sensi del fruitore.
Trout Mask Replica propone, senza alcuna pretesa intellettualoide o spocchiosa, una musica ascoltata con un altro orecchio e con altri schemi mentali.
Tutti gli elementi di base della musica sono stuprati a piacimento da Cuordibue e dalla sua Magic Band ed è proprio da questo punto che dovete cominciare a seguire il Capitano. Spogliatevi di ogni conoscenza e seguitelo. E partite da un presupposto: la “canzone”, intesa come componimento musicale compresso in pochi minuti, sta per essere rivoluzionata.
Prima di tutto, il tempo e il ritmo: la Magic Band suona così tanti ritmi (uno per la batteria, uno per il basso, uno per le chitarre, uno per la voce e così via) che soltanto pochi brani sembrano avere un senso proprio, sempre ragionando in termini classici. Il resto, per i primi ascolti, sembra paccottiglia insensata. Ascoltate Frownland, Sweet Sweet Bulbs, Pena, Bills Corpse per averne qualche esempio. L’influenza del free jazz è soprattutto nei ritmi. Non c’è uno strumento centrale dal punto di vista ritmico e questo spinge l’ascoltatore a cercarlo a piacimento, se non addirittura in maniera casuale (musica “dadaista”? Sissignore).
Poi l’armonia: quasi totalmente dispersa nell’album. C’è veramente poca roba che “suona bene” nell’album (il blues rock della spettacolare Moonlight on Vermont, tanto per dirne una). Ci si può aggrappare al vocione fondamentalmente blues (dalle parti degli shouter, più che altro) del Capitano per avere qualche punto di riferimento classico, ma per trovare la chiave armonica dei brani bisogna sudare molto e ascoltare in profondità tra i suoni, i contrappunti, i riff e, naturalmente, il cantato da bestia blues delle caverne.
Ne viene fuori una libera “destrutturazione” della canzone, come è stato notato da più parti. Si prenda Dachau Blues: batteria su un ritmo, chitarre su un altro, voce che segue più l’umore della musica che il ritmo della stessa (oppure è il contrario?), anche perché un ritmo vero e proprio non c’è, clarinetto ululante e contorto. Oppure il rock burlesco di Ella Guru, con tanto di voci infantili, coretti spastici e passaggi quasi prog. O ancora il free-jazz totale di Hair Pie, per orgia di fiati; il racconto di Pachuco Cadaver, impostato su una base poliritmica solo lontanamente imparentata con un certo country-blues. E così via, passando per qualcosa di più convenzionale come l’eccezionale blues di China Pig.
Il senso ultimo di questa devastazione è però scomponibile in più piani. Prima di tutto, da un punto di vista strettamente musicale, la funzione dell’opera di Cuordibue è quella di costringere l’ascoltatore a fare i conti con i propri limiti. L’ho provato io stesso ascoltando più volte questo “mattone”: ne avvertivo sempre più la grandezza col passare del tempo, ma non riuscivo a trovare la chiave di lettura del disco. Questo mi creava angoscia: “non sono pronto per queste cose”, pensavo. Invece il problema sta semplicemente nel fatto che i riferimenti musicali classici tornano sempre quando ascoltiamo musica, e agiscono come parametri per giudicare ciò che sentiamo.
Su un piano sociologico, poi, Trout Mask Replica è un implicito monito al ruolo che si dà all’Arte nella società post-industriale, giudicata un prodotto come gli altri, che può variare nelle forme, nelle dimensioni, nei colori, ma la cui struttura deve restare sempre la stessa altrimenti la “massa” dovrebbe cambiare se stessa, cosa inaccettabile nell’era dell’omologazione.
Infine, c’è un ultimo piano, che potremmo definire quasi “antropologico”. Più si ascolta il disco e più si captano geometrie, strutture diverse da quelle classiche ma comunque ben delineate nella loro diversità; però tutto questo non esclude la possibilità di vedere TMR come una monumentale geometrizzazione dell’istinto, dell’inconscio, del lato primordiale dell’uomo.
Captain Beefheart ha sintetizzato nel suo capolavoro il lato avanguardistico e quello animale dell’uomo. Cuordibue è, in poche parole, il cavernicolo che scopre il fuoco, a metà strada tra il passato (e quindi la sua condizione primigenia e bestiale) e il progresso della specie; è il cavernicolo pronto a cambiare il mondo oppure a regredire di nuovo con quella luce in mano, che sarà la sua via per il futuro ma anche l’origine della sua autodistruzione.
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