R Recensione

8/10

Sunset Rubdown

Random Spirit Lover

Se ogni scena musicale ha necessariamente i suoi gruppi e le sue figure cardine, risulta naturale associare a questo ruolo, in riferimento alla fulgida galassia indie canadese, Spencer Krug: mente e voce dei venerandi Wolf Parade, pilastro del supergruppo Swan Lake e collaboratore occasionale degli psicotici Frog Eyes. Ma non gli basta.

Lo stacanovista Krug trova anche il tempo di incidere sotto la sigla Sunset Rubdown: compagine giunta con questo Random Spirit Lover al terzo disco. Che non è difficile. Questa volta no. Anzi, a sentirli suonare, sembra tutto semplicissimo: corse sfrenate attraverso un luna park sonoro che ci ostiniamo a chiamare avant pop e che in realtà è ormai una solida realtà dell’indie contemporaneo.

Perché in fondo questo disco, anche se forse non il migliore nell’ ormai sconfinata produzione canadese, non fa altro che aggiungere l’ennesima, solidissima mattonella in una costruzione ormai solida e ben radicata. Un immaginario sonoro per cui non ha nemmeno più senso tirare in ballo i soliti Bowie, Violent Femmes, Flaming Lips, Of Montreal.

L’indie sound canadese ha ormai un suo D.N.A ben definito: fatto di predicatori invasati e psicotici febbricitanti, di voci tremolanti e allucinate, filastrocche circensi e marcette funeree, di tic tardo glam svuotati della propria lucentezza, di saliscendi emotivi e giravolte melodiche. C’è una tavolozza ormai ben definita e si tratta solo di decidere le gradazioni, se spingere il pedale sul lato psicotico e avant come fanno i Frog Eyes o mantenere intatta la parvenza pop come fanno i Wolf Parade, adottare la parziale seriosità degli Arcade Fire o gli eccessi psichedelici degli Swan Lake.

I Sunset Rubdown, ancora una volta, scelgono una via di mezzo: una via di mezzo che non implica certo moderazione e non significa affatto ordinarietà. Le “canzoni” di questo Random Spirit Lover restano inclassificabili. I quattro, un po’ come gli Animal Collective, partono con affastellarsi di fraseggi melodici sconclusionati, asssemblati apparentemente alla rinfusa, ma riescono sempre a trovare, incredibilmente, la via del ritornello: si ascolti The Mending Of The Gown, l’epica bowiana trasfigurata in marcetta scozzese di Up on Your Leopard, Upon the End of Your Feral Days, o la psicoticamente celestiale The Courtesan Has Sung.

Stallion resiste funerea per un paio di minuti con l’aplomb cupo di un pezzo dei Black Heart Procession per poi esplodere sul finale in uno splendido (e chiassoso) crescendo Bowiano: il lato più serioso e funereo del gruppo si rivela in tutta la sua cupa lucentezza e trova in For the Pier (And Dead Shimmering) il suo climax emotivo: molto semplicemente il pezzo che avremmo potuto sentire sull’ultimo Arcade Fire se si fossero portato in studio la ballotta dagli occhi di rana.

Trumpet, Trumpet, Toot! Toot!, penultima traccia del disco è il suggello definitivo: epica del caos, dissonanze morbide, ascessi ritmici e melodici: c’è dentro tutto il microcosmo sonoro canadese, qui dentro. Un universo che abbiamo imparato ad amare in fretta e che difficilmente troveremo il coraggio di odiare per molto, molto tempo ancora, irrimediabilmente assuefatti a questa nuova via al pop.

V Voti

Voto degli utenti: 7,4/10 in media su 11 voti.

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Truffautwins (ha votato 9 questo disco) alle 2:44 del 26 dicembre 2008 ha scritto:

pazzi maledetti