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R Recensione

7/10

Sarah Tandy

Infection In The Sentence

Nel recente sunto critico in cui, partendo dal suo esordio solista, abbiamo provato a schematizzare la frenetica attività del Binker Golding degli ultimi tre anni, abbiamo tirato in ballo anche il nome della talentuosa pianista Sarah Tandy, uno dei profili più giovani e promettenti di quel calderone apparentemente senza confini né limiti che è la tanto decantata scena contemporary jazz londinese. Studi letterari, formazione classica da conservatorio, background jazzistico solido ed eterogeneo, Tandy è già stata coinvolta a vario titolo in molte delle più eccitanti ragioni sociali di cui abbiamo avuto occasione di parlare (Jazz Jamaica, Maisha, Nérija, Ronnie Scotts House Band…), mettendo le proprie competenze strumentali al servizio di musicisti e dischi niente meno che maiuscoli. L’approdo su Jazz Re:freshed per il suo full length d’esordio, “Infection In The Sentence”, appare dunque nient’altro che la conseguenza naturale di un altro percorso artistico sviluppatosi con fulminante e fruttuosa rapidità, primo punto fermo di una voce nuova e già autorevole.

Pur essendo comparsa, nel corso del 2019, in altri due lavori piuttosto significativi a livello mediatico e contenutistico (dapprima a febbraio, nel debutto lungo del collettivo SEED Ensemble, “Driftglass”: in seguito a ottobre, nell’attesa seconda prova della trombettista Yazz Ahmed, “Polyhymnia”), è precisamente in “Infection In The Sentence” – uscito lo scorso marzo – che possiamo ascoltare alcune delle migliori composizioni della pianista londinese. L’idea di jazz perseguita da Tandy, di per sé non particolarmente innovativa nel suo tentativo di fare dialogare i grandi classici bop con battiti e pulsazioni urbani da downtown (passati, se vogliamo, attraverso un leggero filtro da big band che in alcuni frangenti potrebbe ricordare la scrittura polifonica di Kamasi Washington), si estrinseca tuttavia in una prima metà d’illuminante intensità, circa venticinque minuti in cui si condensano le intuizioni più felici e puntuali della bandleader. Dell’iniziale “Bradbury Street”, oltre alla variopinta head che oscilla continuamente su un diapason di frequenze che dal jazz modale lambisce il calypso, intriga il solismo inoppugnabile dei tre attori principali (arroventata la tromba di Sheila Maurice-Grey, coltraniano Golding, geometrica la Tandy), contrappuntati alla perfezione dall’inarrestabile Femi Koleoso (già Ezra Collective). “Nursery Rhyme”, di grande raffinatezza armonica, è l’omaggio al Miles Davis dei primi ’60 che la generazione dei GoGo Penguin non era ancora arrivata a scrivere. Superato a destra il ben eseguito calligrafismo washingtoniano di “Under The Skin”, arriva infine la fusion oscura e appuntita di “Timelord”, qualcosa che Kamaal Williams potrebbe scrivere solo rimpiazzando il proprio consueto virtuosismo estetico con bordoni di tritoni: persino l’abbondante intervento di Golding, tra i due Sonny (il sassofonista Rollins e il chitarrista Sharrock), sembra più sinistro del solito, stranamente pencolante verso il free jazz.

Il dado, a questo punto, è già bello che tratto. C’è ancora tempo per gli ultimi assi nella manica, il gradevole modernariato soul di “Light/Weight” e l’afro-jazz reggaeggiante di “Snake In The Grass” (invero un po’ ruffiano), ma nessuno dei due incide significativamente sul giudizio complessivo. Parlare di uscite jazz londinesi degne di nota, ne conveniamo, rassomiglia sempre più ad una raccolta di figurine, ma che fare se abbiamo la fortuna di essere testimoni di questa straordinaria contingenza?

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