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R Recensione

7/10

Maisha

There Is A Place

Questo, ci potete mettere la mano sul fuoco, è un esordio che sarà ricordato a lungo. Giove pluvio me ne scampi dal diventare mai un promoter di professione, ma una tagline efficace da strillare sui tre manifesti di Ebbing per catturare l’essenza dei Maisha di “There Is A Place” sarebbe the hottest free agents are conquering your city. E non certo perché si tratti di un disco particolarmente memorabile, anzi: aldilà dei meriti musicali la sua più grande fortuna è, semmai, quella di capitare al posto giusto nel momento giusto, di certificare ufficialmente la definitiva riappropriazione popolare del jazz in un anno, il 2018, che non solo garantisce grande continuità alle uscite di genere, ma ne registra un’ulteriore impennata, una proliferazione e diversificazione tale – bagnata da un sorprendente interesse critico e di pubblico – come mai si era vista dagli anni ’70 in avanti.

Non sorprendentemente, una volta ponderate le esplicite influenze di molti progetti attualmente sulla cresta dell’onda, è John Coltrane il nume tutelare dei Maisha: un primo e più diretto riferimento (l’attacco orchestrale di “Osiris” sembra quasi omaggiare “Acknowledgement”) che, tuttavia, non oscura né ridimensiona la notevole complessità di un suono variopinto e multistrato, secondo solo al Kamasi di “The Epic” (“Heaven And Earth”, per eccesso di magniloquenza, non costituisce un paragone valido). Inevitabile tirare in ballo il trentasettenne losangelino in un generico discorso sulla rinascita contemporanea del jazz, ed in effetti tutta la prima parte della summenzionata “Osiris” lo ricorda da vicino: il sax di Nubya Garcia suona piccole e semplici frasi che, sotto la spinta dei violini di Barbara Bartz e Johanna Burnheart, tendono ad espandersi in volume e intensità, ripiegando poi su un solismo classico rimpallato dal ticchettante accompagnamento del bandleader Jake Long. È solo nella seconda metà, con l’aumento del contagiri ritmico e l’entrata in scena della magnifica chitarra di Shirley Tetteh, che prende corpo il twist afro-fusion: il plauso, e gran parte del colore aggiuntivo che rinvigorisce il finale, spetta al parco percussioni di Tim Doyle.

Che i Maisha amino guardare nella direzione di tradizioni diverse da quella euroamericana è dato di fatto tradito da un gran numero di particolari: l’inedito minimalismo mistico della title track (l’ordito pianistico di Amané Suganami traduce in accenti indocentrici le visioni di Alice Coltrane), l’ampio ricorso a flauto e arpa (elemento chiave, quest’ultima, anche di coeve uscite di genere, da Binker & Moses al sontuoso Makaya McCraven del recente doppio “Universal Beings”), l’esotica segmentazione ritmica (i 6/8 di “Kaa” sono un richiamo parlante a chi ama alcuni intrecci klezmer dell’accoppiata Cohen-Baptista in Acoustic Masada, come qui). La matrice soul, pure sbandierata, compare solo a tratti, innescata dall’arringa di Garcia al giro di boa di “Kaa” (che comunque si dissolve notturna e psichedelica) e nell’Ellington rubato di una “Eaglehurst/The Palace” con ambizioni da nuova “Caravan”. Per linearità nella crescita, tutto ammantato di un’aura stranita e misteriosa che si dissolve nel momento in cui il flauto traverso di Garcia cede il posto alle progressioni à la McCoy Tyner di Suganami, la palma del miglior pezzo (qualcosa che vale veramente la pena ascoltare e riascoltare con un paio di cuffie degne di questo nome) non può non essere assegnato ad “Azure”: l’unico momento, peraltro, in cui i Maisha sembrano voler gettare il cuore oltre l’ostacolo e provare a dire qualcosa di nuovo.

La votazione finale, senz’altro generosa, tiene conto di due aspetti. Il primo, oggettivo, è che la spietata concorrenza d’area costringerà ben presto il collettivo a intraprendere strade diverse. Il secondo, soggettivo ma circolare, è che – per quanto derivativo – “There Is A Place” rimane un bel disco. Per smuovere gli entusiasmi ci vorrà qualcosa di più del mero apprezzamento estetico, ma per quello, confidiamo, ci sarà tempo.

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