Dave Brubeck Quartet
Time Out
Esiste qualcosa di più stupido di un pregiudizio?
Credo di no. E badate che parlo con cognizione di causa: per anni mi sono accompagnato all'idea per cui il jazz vero (come se ne esistesse uno falso) fosse esclusivamente quello che si colloca sulla linea evolutiva bop/ hard-bop/free.
Nient'altro: il jazz, per suonarmi come tale, doveva essere aggressivo, rumoroso, imprevedibile, a suo modo traumatizzante e carico di significati eversivi.
Tutta colpa di una formazione culturale ed anche latamente politica che mi ha indotto ad approcciare la storia del jazz a ritroso, prendendo spunto dai contestatori anni '60, per arrivare successivamente all'epoca degli innovatori oscuri della Grande Mela ed alla musica dell'epoca bellica.
La stagione del cool-jazz, una sorta di scheggia impazzita rispetto al continuum descritto, per lungo tempo m'è parsa semplicemente un'aberrazione se non un errore della storia.
Come detto, il mio era un pregiudizio completamente idiota.
Fermo restando che il jazz di marca nera, di norma, rimane la musica che più mi tocca ed entusiasma in questo ambito, un bel giorno mi sono fortunatamente accorto di quanto fosse superficiale bollare un'intera stagione (quella del cool-jazz) come semplice aberrazione, quando invece ha rappresentato un momento unico e felice, una fase creativa indubbiamente fuori tiro rispetto all'evoluzione tipica genere, ma forse proprio per questo particolarmente affascinante e ricca.
Il merito della mia conversione è da attribuirsi principalmente a questo Time Out del Dave Brubeck Quartet, primo disco latamente cool che mi sia capitato di ascoltare, ed ancora oggi fra i momenti imprescindibili della mia discografia jazz, anzi della mia discografia tutta.
Come noto, il cool-jazz (jazz fresco) prende forma sulle spiagge assolate della California, ed anche per questioni geografiche, oltre che culturali, è distante anni luce dal clima e dalle sonorità della Grande Mela: è dolce, raffinato, intrinsecamente bianco e colto, molto più vicino ai canoni della musica occidentale (che da sempre predilige ordine, chiarezza, armonia ed equilibrio) rispetto al jazz nero; della musica afroamericana, in ogni caso, conserva lo swing, la propensione per l'improvvisazione (per quanto molto più quadrata), la capacità espressiva in qualche misura sempre astratta.
Il cool, di fatto, è un bop raffinato ed accompagnato con dolcezza verso il mondo della musica colta europea: le sue trame strumentali evocano sempre in qualche modo - i fraseggi cervellotici di Parker e soci, ma ne virano il calore e la completa imprevedibilità verso strutture meglio riconoscibili e più tradizionali.
Tutte caratteristiche, queste, che trovano in Time Out un traguardo formale ancor prima che comunicativo. Un traguardo, è importante dirlo, di bellezza difficilmente eguagliabile e non solo in questo contesto.
Fosse anche solo per la grandezza dei musicisti: in primis ovviamente il pianista Dave Brubeck, autore di studi classici presto convertitosi al jazz ed all'improvvisazione, che regala qui alcune fra le perle della sua carriera (in ogni suo brano, infatti, si avverte la tendenza a tradurre nel linguaggio del jazz spunti tipicamente classici quali rondò e fughe); in secondo luogo il sassofonista Paul Desmond, fuoriclasse dello strumento capace di elaborare un discorso tanto lucido ed asciutto quanto intenso: la sua musica vuole suonare come un martini secco, e per qualche strano motivo pare riuscirci davvero.
Ma veniamo al disco in sè, prendendo spunto dal pezzo più celebre, ed anzi da uno dei bestseller di tutta la storia del jazz, utilizzato anche di recente per spot pubblicitari & C: Take Five.
Già il titolo dice tutto: qui il jazz, forse per la prima volta, abbandona il terreno confortante dei 4/4 (quasi un marchio di fabbrica) e costruisce il suo fraseggio attraverso scansioni metriche più complesse, in questo caso in 5/4. Balza subito all'orecchio, questo dettaglio: fosse anche solo per la sensazione di disorientamento che i tempi composti evocano in modo quasi naturale nell'ascoltatore.
Non si fraintenda, comunque, perchè complessità o meno si gode come ricci davanti a questo gioiello: la scansione ritmica di Brubeck al piano mantiene una propria struttura regolare e circolare, le percussioni di Morello sono spazzolate deliziose e leggiadre che passo dopo passo si divincolano dalla rigidità dei 5/4 per riannodarsi in brusio sempre elegante e preciso; il tutto mentre il tema centrale, disegnato con maestria dal sax alto di Desmond (autore del pezzo), è di quelli che ti si appiccicano addosso per sempre.
Eleganza e leggerezza si sposano alla perfezione in quel riff morbido, relativamente semplice nel suo memorabile saliscendi.
L'altro luogo imprescindibile del disco è Blue Rondo a La Turk, strepitoso congegno in 9/8 che si contorce elegante e naturale: ho sempre creduto che la grandezza di un musicista risieda anche e soprattutto nella sua capacità di far suonare come naturali invenzioni in realtà estremamente complesse.
E qui la mia teoria ha trovato basi solide ove appoggiarsi: Blue Rondo a la Turk è un pezzo giocato su scansioni ritmiche quasi cervellotiche (il 9/8, utilizzato peraltro in forma poco convenzionale, si trasforma con estrema naturalezza in un più ordinario 4/4 e poi ruota sino a ritrovare la forma originale), ma non perde nulla in termini di espressività ed efficacia.
Il tempo trae origine da ritmi di origine balcanica, e si suddivide in scansioni di 2/8+2/8+2/8+3/8 (le prime tre battute) e 3/8+3/8+3/8 (la quarta): per il jazz si tratta di un'innovazione alquanto azzardata ma efficacissima. La tendenza alla poliritmia è evidente, allinterno dello stesso brano più ritmi e persino più tonalità.
La formazione classica emerge con vigore ancora maggiore in occasione di Kathy's Waltz, elegantissimo walzer che riporta alla memoria le immagini deliziose di Someday my prince will come, oltre che nella dolcissima Strange Meadow Lark, estenuante nel suo incedere delicato e quasi Evans-iano, nel suo pianismo eloquente ma sempre misurato, che sfoggia con eleganza cambi di tono e fughe.
Qui si avverte anche linfluenza di autori classici quali Chopin e Bach, questultimo in particolare viene in risalto attraverso numerose rievocazioni del suo stile inconfondibile, specie nelle rapide successioni di accordi al pianoforte, che danno vita ad una sorta di competizione in abilità fra i due strumenti.
Three to get ready merita a sua volta di essere mezionata: è un brano giocoso che si presenta con una sorta di esclamazione del pianoforte (quasi pianista si divertisse in perfetta solitudine), seguita dall'elegante discorso del sax che sviluppa nei modi più svariati il tema centrale.
Ecco, siamo giunti alla fine. Insomma, non c'è che dire: alla faccia mia e dei miei pregiudizi, niente male questi visi pallidi.
Contributi di Erica Guastoldi
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