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R Recensione

8,5/10

Modern Jazz Quartet

Fontessa

Il 1956 fu un annus mirabilis per il jazz; da gennaio a dicembre, in quell’anno sono infatti stati registrati una serie impressionante di album memorabili. “Pithecanthropus Erectus”, l’antropologicamente visionario “esordio artistico” di Charles Mingus; “Saxophone Colossus”, una delle Bibbie del sax tenore, di Sonny Rollins; “Brilliant Corners”, il triofo compositivo di Thelonious Monk; e “The Jazz Workshop” dell’astro nascente George Russell, collana di interessantissime proposte orchestrali. Ora, tutti questi album hanno ormai abbondantemente ricevuto i riconoscimenti e la fama che giustamente meritano, eppure c’è un’opera coeva che avrebbe tutto il diritto appartenere alla cerchia dei “classici imprescindibili”, che però disgraziatamente rischia di rimanere in ombra: mi riferisco ovviamente all’imperioso “Fontessa”.

Il Modern Jazz Quartet, capitanato dal pianista John Lewis (il principale compositore) e dal vibrafonista Milt “Bags” Jackson, seguiti dalla sezione ritmica più discreta del jazz, il contrabbassista Percy Heath e il batterista Connie Kay, aveva esordito su LP con “Django”, col vecchio batterista Kenny Clarke, che peraltro resta tutto sommato il loro unico album discretamente famoso. Diciamocelo, “Django” non è proprio da buttare: forte di un capolavoro come il celebre requiem dedicato a Reinhardt, appunto “Django”, e di qualche altro brano felice come l’articolata “La Ronde Suite” e “Delauney’s Dilemma”, già proponeva in forma abbastanza matura la loro idea fusione tra jazz e musica classica barocca, e insomma ha tutto il diritto di essere considerato una piccola pietra miliare del jazz dei ‘50. Tuttavia, a spiazzare ogni dubbio sul fatto che sia in realtà “Fontessa” il capolavoro del MJQ ci sono, principalmente, due fattori. Il primo, una decisamente maggiore maturità di compositore e direttore di Lewis, che nella pratica si traduce in una qualità di materiale mediamente alta per tutto il disco, a differenza di “Django” che lasciava trasperire più di qualche ingenuità nei pezzi più deboli. Secondo (più sottile ma forse addiritura più determinante), un’atmosfera di austerità ed assieme di intimità (del tutto inimitabile) che suggerisce come una coerenza di fondo, ma senza che ciò gravi sulla personalità delle singole parti. E così “Fontessa”, il brano più esteso, rappresenta la condensa di tutto ciò di buono che il progetto MJQ ha voluto rappresentare per la musica del suo tempo, undici minuti di pura eleganza, di buon gusto, e – mi si permetta di affermarlo – di chiaro genio; una composizione di una raffinatezza e complessità degna della musica barocca della più alta qualità, con le tipiche deliziose improvvisazioni a cui il gruppo mai ha rinunciato, e persino una piccola incursione sperimentale – e quanto misurata e incantevole! Naturalmente “Fontessa” è solo il diamante più grosso in questo scrigno di pietre preziose. Infatti, come non rimanere estasiati al cospetto dei rintocchi romantici di “Angel Eyes”, di fronte allo straordinario riarrangiamento di “Over the Rainbow” dove tra l’altro si può apprezzare uno dei lavori più toccanti di Milt Jackson dell’intera sua carriera… basta, è inutile cercare un brano brutto o anche solo mediocre: tutto sembra incastrato nel posto giusto con intelligenza sovrumana, e con una delicatezza che anch’essa non sembra appartenere a questo mondo.

Il Modern Jazz Quartet, i “quattro negri ben vestiti e ben educati”, ovvero il sogno musicale di John Lewis che credeva in una musica afroamericana legata indissolubilmente all’elegante e razionale musica europea, un gruppo di grandi musicisti apprezzati e benvoluti dal pubblico bianco, e invece spesso incompresi, guardati di traverso, dai jazzmen neri che giudicarono la loro musica come un imbastardimento innaturale e sconveniente dello spirito negro del “vero” grande jazz. Un gruppo da salotto per benestanti un po’ assonnati, e assieme un’autentica scheggia impazzita in un mondo di jazzisti sempre più passionali; artefici di una musica che rappresentò per la sintassi del jazz un notevole salto di qualità formale, ma una musica che sembrerà quasi ininfluente sul suo effettivo corso. In ultimo, sono il tentativo di stendere un ponte oserei dire razziale dove, fisiologicamente, culturalmente, musicalmente, non ci può assolutamente essere: eppure, il Modern Jazz Quartet ha dimostrato che tale ponte impossibile era invece possibile, e con “Fontessa” ha dimostrato anche che si può fare jazz di altissimo livello in maniera del tutto borghese, con giacca, cravatta, nere e lucide scarpe.

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