Korn
Korn
Lesordio dei Korn è una delle pietre miliari principali del nu-metal, e senza dubbio uno dei più memorabili momenti espressivi del metal in generale negli anni 90. Mentre Dream Theater ed altri loschi figuri come Cynic e Believer cercavano di nobilitare il linguaggio del metal indirizzandolo verso lidi sofisticati, il (notevole) cantante Jonathan Davis e compagni (Brian e Munky a chitarre duellanti e non soliste, Fieldy al basso, David alla batteria) mettevano in musica una cieca montagna russa di infanzie lacerate ed adolescenze mal cicatrizzate, di abbandoni morali, proponendo invece un viaggio traumatico e senza redenzione.
Viaggio che principia con Blind, il primo capolavoro dellalbum, il brano che ci catapulta nellopaco mondo di Davis. Un ticchettio di piatti, singhiozzi di chitarra, il basso inquietante che fa capolino. La tensione è alta fin dallinizio, ma non appena la canzone pare prendere forma Jonathan Davis entra in scena con un agghiacciante Are you ready?. Si parte. Riffoni di chitarre uniti alla brutalità del basso e della batteria, un frastuono infernale. Il suono dei Korn. Il cantante inizia a descrivere un posto speciale nella sua testa dove rifugiarsi quando le cose si mettono male. Torna la rabbia, un soliloquio brutale quasi rappato; probabilmente in questi secondi si assiste a un nu-metal al massimo dello splendore. Tutto si spegne e latmosfera torna linquietudine. Davis biascica scuro in volto I cant see I cant see Im going blind, a ripetizione, finché i suoni di colpo non si riaccendono dipingendo unatmosfera energica e surreale, fra incroci di chitarre e ruggiti: ma poi tutto si riveste di paura e disperazione, la band torna a tuonare, selvaggia mentre un Davis pieno di terrore si sgola in un crescendo spaventoso. Torna la tranquillità, la calma relativa in una cella da manicomio, ma suo modo liberatrice. Dissolvenza.
Ball Tongue è un altro brano chiave. Un furioso death metal che scuote lanima lascia spazio al cupo basso e ad un canto dapprima solo inquieto, poi straripante di rabbia, assecondato dalla band. La sovra incisione del canto è spettacolare, un Davis grida Ball Tongue! e laltro esibisce un registro licantropo prestato allhip hop: un ottimo saggio vocale della paura e dellinquietudine. Il copione si ripete, il sound si scioglie in una vecchia diapositiva scolorita, poi il ritmo riprende. Il basso di Fieldy è tra i massimi protagonisti del brano, e dellalbum tutto, incupisce magistralmente ogni canzone. Ora Davis borbotta a ripetizione how can you fuckn doubt me, but not again, riprende poi lassurdo monologo di prima. Youre psychopaths youre psychopaths youre psychopaths , fino a giungere al terribile sfogo finale di Davis e la sua incazzatura indignata mentre la band recupera quel levare maciullante, in un alchimia difficile dimenticare. Martellate, latrati umani, dissolvenza.
A onor del vero i brani seguenti non sono tutti indimenticabili, anzi alcuni (come Lies e il peggiore, Predictable) sono perfino del tutto trascurabili; ma nellinsieme questi sketch dellorrore compongono un tetro malato mosaico che supplisce efficacemente a certi cali dispirazione. Fondamentalmente i tasselli servono a schiaffare in faccia allascoltatore i vari dettagli delle turbe psicologiche di Davis. Ma trasmettono anche una carica emotiva devastante. Si respirano in continuazione sia la ferocia primitiva dei Sepultura che quella urbana dei Rage Against The Machine, eppure la combinazione delle schizofreniche parti cantate e della potenza degli strumenti è formidabile, carismatica, unica. Indispensabile però anche il contributo del produttore Ross Robinson, che aiuterà in tutto il processo ad ottenere i livelli depressivi desiderati.
Need To, dominato dal basso-killer, la più breve Divine e ancor meglio Clown, col suo mid-tempo ostile, sono degli antipasti per Faget, che nei suoi sei minuti è forse il manifesto più completo della band, un incubo rabbioso ma anche pieno di sfaccettature. Shoots and Ladders si apre su malinconiche note di cornamusa (suonata dal cantante) per poi proporre un interessante accostamento tra filastrocche private della loro innocenza e un heavy metal spigoloso. Helmet In A Bush (con sospiri affannati e raccapricciante borbottio finale) ma soprattutto Fake (ottimo equilibrio di violenza, esplosioni industriali e cantati relativamente pacifici) sono altri colpi da maestro che concludono efficacemente questa galleria di foto di tortura, ora sbiadite, ora vivide.
Lo psicodramma Daddy è il colpo di grazia definitivo e perfetto del disco, potente affresco di abusi fisici e psicologici subiti da Davis nella sua infanzia, un affannato esorcismo personale su cui non intendo dilungarmi come ho fatto con i primi due brani dellalbum, ma su cui spendere due parole è doveroso. Qualcuno lha definito il terzo dei grandi psicodrammi del rock, dopo The End dei Doors e Frankie Teardrop dei Suicide. Personalmente non credo che meriti tale posto donore, ma di certo la sua desolante sincerità gli permette di non sfigurare. La struttura del brano non è complessa nei suoi nove minuti e mezzo, il testo è ripetuto ossessivamente e il sottofondo musicale non è rivoluzionario. Ma lascia trasparire unangoscia da sciogliere il cuore, dal coro-preghiera da messa iniziale fino ai piagnucolii rabbiosi e disperati finali.
La strada dei Korn non termina certo qui, sforneranno con regolarità tutta una serie di album che tuttavia non si avvicineranno nemmeno alle vette (abissi?) di questopera, al massimo la integreranno con alcuni episodi interessanti, nulla di meno, nulla di più; tutto sfumerà in una fine ingloriosa, per il loro passato. Non ci rimane che restare affascinati da quest esordio, rendersi conto nuovamente che il messaggio desolante di Jonathan Davis non scompare nei 90...
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