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R Recensione

6,5/10

Bibi Ahmed

Adghah

C’era una volta e c’è ancora la Sublime Frequencies, la testa d’ariete post-coloniale con cui l’Occidente euroamericano penetra negli inesplorabili suoni di mondi così sommersi da non essere, forse, mai esistiti. E c’era una volta – ma non c’è più – anche l’OumaraBombinoMoctar di “Agadez” (2011), disco registrato all’indomani della rivoluzione Tuareg, che lo impose all’attenzione della critica e ne fece conoscere pagine di vita al pubblico non aduso a bazzicare i cataloghi di Sublime Frequencies. Il resto è storia. Vale la pena ricordarselo, perché qualsiasi valutazione estetica su “Adghah”, primo disco solista del leader del Group Inerane Bibi Ahmed (collettivo di musicisti tishoumaren che con Bombino e i grossi calibri Tinariwen hanno condiviso la polvere della strada, le sale di incisione, il sudore delle lotte per il riconoscimento sociale), non può prescindere dalle condizioni che ne hanno ispirato la nascita. Per la colpa di appartenere ad un’etnia che, nella narrazione istituzionale dei governi di Mali e Niger, può ricoprire solamente il posto dell’eterno capro espiatorio (e fateglielo capire a chi straparla di confini e barriere che se è nato dove è nato e vive come vive deve solo ringraziare il benevolo fato…), Ahmed ha vissuto sulla sua pelle la ghettizzazione, l’esilio forzato e persino l’incarcerazione in quei temibili campi libici che tutti conoscono e che tutti, per questo, fanno finta di non conoscere: anche di questo parlano i testi di “Adghah”.

La musica segue di conseguenza. Come tutti i chitarristi formalmente ascrivibili al correntone del desert blues centrafricano, anche Ahmed adotta uno stile che alla quantità predilige nettamente la qualità, alla policromia l’accostamento minimale. Un tempo si sarebbe detto, per amor di politically correct, che “Adghah” è un disco in grado di piacere sicuramente ai fan (con questo implicitando l’esclusione logica di tutti gli altri), ma si tratterebbe di una valutazione ingenerosa e, soprattutto, parziale. Di microvariazioni a livello parametrico la tracklist è letteralmente intessuta, specialmente nella gestione stimolante dei toni strumentali e dell’accompagnamento ritmico: si pensi, solo per fare qualche esempio, all’avviamento a basso voltaggio dell’iniziale “Sef-Afrikia” (un saggio di circolare essenzialità su pentatonica), all’intimità folk della semielettrica “Tamiditin Aïcha” (pezzo che circolava ben prima dell’incisione ufficiale), al controfraseggio frigio (al limite del solismo) di una “La La La” più tinariweniana dei Tinariwen, alle sferzate tribali di “Tel Kal Tidit” o all’oscillante cadenza trocaica di una “Lubia Taura” che rassomiglia quasi ad una litania sacra. A volervi trovare un difetto ingombrante, di tanto in tanto, soprattutto negli episodi più lunghi (“Tamiditin Janette” è un filo noiosa), si vorrebbero avere a disposizione più mezzi linguistici – data la sua importanza – per comprendere o almeno segmentare il favellare a getto continuo di Ahmed (quasi dylaniano nella trance della centrale “Marhaba”), che invece tollera poco le forzature ermeneutiche dell’ascoltatore: un peccato radicale che può essere aggirato, ma non eluso, solamente ricorrendo ad un aiuto esterno.

È questo, a ben vedere, l’unico elemento che impedisce il coinvolgimento attivo di un fruitore non addentro alla realtà di cui Ahmed è parte integrante: rischi e pericoli di un filtro culturale finanche inconscio, ma drammaticamente pervasivo. “Adghah”, anche e soprattutto per questo, merita la giusta attenzione.

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