Pierpaolo Capovilla
Obtorto Collo
Pierpaolo Capovilla si riscopre solista, lascia per un attimo Il Teatro degli Orrori e realizza quello che a suo dire è il più bel disco di canzoni dautore che sia stato fatto in Italia negli ultimi 20 anni. Un disco destinato a durare. Il sacrosanto principio di non dare giudizi lusinghieri sulla propria opera è gettato alle ortiche, e Obtorto Collo, al contrario, non può annoverarsi tra i migliori dischi cantautorali dellultimo ventennio italiano. Si colloca, anzi, tra quelli più prescindibili.
Capovilla non opera da solo e si circonda di una miriade di musicisti, oltre che della produzione del guru Taketo Gohara. Si sa che il punto di forza di un disco capovilliano sarebbe stato laspetto lirico, ma Obtorto Collo fallisce anche laddove non doveva fallire: le parole, raffazzonate, raccontano storie autobiografiche che mirano ad essere universali, eppure nulla cè di meraviglioso; il parlato e la voce nasale non brillano mai di una luce particolare, e vige solo un sentenziare verboso, un delirio che vorrebbe essere poetico e invece è un calderone confuso di pensieri e di impressioni.
Calderone confuso anche dal punto di vista prettamente musicale, mare ingarbugliato di sterili sperimentazioni, di tracce folk e di spente aperture alt-rock. Le atmosfere e la voce rammentano i Bachi da Pietra, ma gli unici momenti accattivanti sono, stranamente, le digressioni degli archi, con la severità del piano a far da tappeto (si veda la title-track).
Così lesordio di Invitami, una specie di rumba lentissima, lugubre, già palesa il disagio (Io, io non mi riconosco più /, in questi luoghi e in queste circostanze), il noir stanco e desolante. Nessuna scintilla neanche con i pezzi più ariosi: Dove vai ha un ritornello banale per contenuti e suoni, pare di ascoltare i Perturbazione meno ispirati; Come ti vorrei non entusiasma, nemmeno con lintroduzione del sax. Si citano posti, come Torino (La luce delle stelle), si scomodano poeti (Zanzotto, in Arrivederci), si usano cori fanciulleschi (Ottantadue ore), si abusa di monologhi senza costruzioni attorno (la strisciante Quando). Si salva appena Bucharest, scritta nella città romena, canzone quasi sanremese nella sua malinconica pienezza.
Capovilla recita, parla, forse dialoga. Cè troppo lui, in questo disco, con la sua figura ingombrante ed egocentrica, che poco lascia alle note e alle vere vibrazioni. Per chi crede che la musica sia anche sermone, potrà piacere. Per chi ritiene che la musica sia soprattutto altro, potrà essere aborrito. Per troppo tedio.
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