Dead Can Dance
Anastasis
Sedici anni: tanto è durato il silenzio impenetrabile dei Dead Can Dance, il loro coma, la loro morte momentanea. Eppure, in armonia con il loro nome (“La morte può danzare”) è come se non avessero mai cessato di essere, come se la divisione non avesse minimamente intaccato la vitalità insita nella loro musica. “Dead Can Dance”, infatti, fa riferimento ad una maschera tribale della Nuova Guinea che sopravvive all’artista che l’ha creata: l’artista è uomo, e come tale è destinato a perire prima dell’oggetto. Ma questa maschera, riutilizzata nelle danze cerimoniali, farà in modo che lo spirito del suo creatore si aggiri comunque nei riti: è come se la morte ballasse, appunto. E lo scioglimento dei DCD non ne aveva provocato la scomparsa, perché l’atto creativo porta qualcosa alla vita, un qualcosa che come la maschera è difficilmente deperibile.
“Sedici anni sono tanti, ma è come se non fosse passato neanche un mese”, dice Lisa Gerrard, a confermare il sodalizio profondo con Brendan Perry, un legame professionale (e un tempo anche affettivo) che esula dalle tirannie del tempo. La clessidra dei Dead Can Dance, in fondo, è rimasta al 1996, sospesa: “la riconciliazione è stata la cosa più normale che ci potesse essere”. Normale e “naturale”, precisa la Gerrard, senza obblighi, ansie, forzature. La reunion poteva sancirsi anche prima, ma il duo anglo-australiano ha lasciato volontariamente in stand-by il suo progetto, “come un vino che ha bisogno di maturare per raggiungere il suo gusto migliore”. E l’esito di questa lunga vendemmia ha nome Anastasis, parola greca che letteralmente è “stare in piedi”, dunque resurrezione. Vocabolo quando mai azzeccato ed emblematico, a decretare una rinascita artistica che però musicalmente non prende le distanze da un passato corposo e di spessore. Anastasis come ritorno, come nuovo inizio. I girasoli avvizziti in copertina non fanno altro che ribadire questo aspetto ottimista dell’album: torneranno a splendere, dopo il freddo inverno, rialzando la testa in questa totale resurrezione, in questa nuova vita.
Sette dischi in dodici anni, in un arco di tempo che va dall’84 al ’96, sono un fardello di non poco conto, soprattutto se la considerazione per questi lavori è elevatissima e più volte si è inneggiato al capolavoro. Il confronto con un passato tanto fulgido, per quando possa servire a qualcosa, tuttavia regge abbastanza: l’ugola sopraffina della Gerrard è rimasta intatta, nonostante sia varcata la soglia dei cinquant’anni; Brendan Perry, allo stesso modo, ha perso tutti i capelli trattenendo, però, quel timbro di voce roco, profondo, cavernoso. La cura degli arrangiamenti è la medesima di sempre, intensificata da strumentazioni inconsuete (dulcimer, gong, hang e tanto altro). I Dead Can Dance, in sostanza, mantengono il loro carattere solenne, mistico, contemplativo, senza mai scadere nel manierismo. La riscoperta di tradizioni arcaiche e i riferimenti ad una precisa cultura (in Anastasis principalmente a quella dell’antica Grecia) sono del resto aspetti a cui la Gerrard e Perry, nella loro arte erudita, avevano già abituato. Il disco è orientaleggiante, esotico: la capacità evocativa dei DCD non ha perso vigore.
Gli otto lunghi brani catapultano tra le rocce rosse di Petra, tra le meraviglie di Bisanzio, la sabbia dell’Egitto, il candore di Atene. È necessariamente una musica per immagini, che solca il Mediterraneo per approdare nei suoi anfratti più a levante. La voce della Gerrard non evade mai dagli argini, sprigiona la sua potenza con cura. Lo fa negli episodi più etnici dell’album: in Anabasis (“ascensione”), Agape (”amore”) e Kiko. Non dispensa parole, come sempre, ma si esprime nella sua lingua intellegibile, per non scalfire la purezza della musica. La voce baritonale di Perry si impone nel trascinante esordio, Children of the sun (“Siamo antichi, antichi come il sole, veniamo dall’oceano, un tempo la nostra casa primordiale”); poi in Amnesia, Opium e nel congedo All in good time. Lisa e Brendan, dopo essersi sfiorati, si incastrano solo nel settimo brano, Return of the She-King, aperto a sonorità più irlandesi. “I ricordi cadono dagli alberi, i ricordi sono come foglie di autunno”, canta Perry in Amnesia.
Sospendiamo il gravoso paragone con i Dead Can Dance del passato, lasciamo che la loro memoria, i loro ricordi, cadano come queste foglie ingiallite, oramai fuori stagione. Sorseggiamo questo vino per ciò che è, facciamo che il suo aroma ci trasporti altrove, in Oriente. Perché alzarsi in piedi, “rinascere”, significa anche dimenticare ciò che si è stati. Perché risorgere, in fondo, significa che la morte può ancora danzare.
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