O.R.k.
Inflamed Rides
Se avete iniziato a leggere questa recensione incuriositi dalla copertina, dal nome del disco, spinti da pura inerzia , chiudete la pagina. Facciamo, per una volta almeno, un esperimento: ascoltatevi in fila, una dietro laltra, Breakdown e Pyre. Mettetevi comodi e provate a riconoscere chi si cela dietro il contagioso riff tooliano del primo brano (i Tool di Undertow, intendiamo: quelli più legati al loro background grunge), quali silhouette si intravedono tra i magli della texture acustica del secondo (una quasi-ballad floydiana, dal retrogusto minaccioso, stupendamente arrangiata ed interpretata con un intreccio prodigioso di registri vocali). Viene già complicato associare ad un solo act, oggi, episodi fra loro così eterogenei: il gusto, il respiro sembra piuttosto quello del crossover cannibale dei Noughties, la terra ignota dalle mille possibilità. Il discorso acquista sfumature e volumetria allo svelare il nome dei pionieri: O.R.k. nasce e si sviluppa da un originario sodalizio fra Lorenzo Esposito Fornasari (la mente musicale delle ultimissime grandeur teatrali di Giovanni Lindo Ferretti, il demone di Obake, lanima profonda di Berserk!) e Carmelo Pipitone (voce e chitarra dei Marta Sui Tubi). Se già vi sembra abbastanza interessante, rilanciate il browser: il gruppo si completa con la partecipazione a distanza di Colin Edwin al basso (storico motore dei Porcupine Tree, recentemente in Metallic Taste Of Blood e in Obake) e di Pat Mastelotto alla batteria.
Si può generalizzare, ingenerosamente (ma da quando in qua le generalizzazioni hanno mai funzionato?), dicendo che tre quarti del gruppo sono il riflesso speculare dellintensa attività di coworking cui spinge la politica di unetichetta come RareNoise, di cui Fornasari, Edwin e Mastelotto sono autentici aficionados anche se, bene sottolinearlo, Inflamed Rides esce autoprodotto. La bizzarra incognita Pipitone, ce ne si accorge dopo molti ascolti, è la variabile che scombina le carte in tavola, trasfigurando il volto di O.R.k. da ennesima congrega intellettuale (potenzialmente profonda, ma tutto sommato superflua) a quartet dalla scrittura piena e fluida. Una rock band nata per durare, saremmo tentati di chiosare: per quanto paradossale possa apparire, tale è la realtà. Inflamed Rides, allora, privilegerà il tratto continuo alle spianate puntiniste, lalternanza regolare di strofe e ritornelli agli strappi e agli scossoni dellimprovvisazione: abissale la distanza, per dire, da progetti estemporanei come KoMaRa. Attenzione, peraltro, a non cadere nelle trappole continuamente sottese a tale andamento: lineare, ma non per questo banale, né immune da inciampi meticolosamente studiati in fase darrangiamento o, ancora, da soluzioni sonore inusuali. Lattacco in controtempo di Jellyfish (elaborata session à la Talking Heads, con fiammate Faith No More nel refrain), le malinconiche venature della tromba di Paolo Raineri nella math-wave vagamente romantica di Dream Of Black Dust (poi struggente sentinella astrale nella successiva Black Dust, che sacrifica le geometrie chitarristiche à la Belew), oltre agli armonici acidi e sciancati di Vuoto, sono passaggi esemplari di unaccessibilità che mai diviene volgarità, di una musicalità che non svende a tutti i costi la propria imprevedibilità.
Lorgia di complimenti, naturalmente, non oscura qualche cedimento, individuabile nella parte centrale della scaletta. Ad esempio, non si coglie la necessità di trasformare la glassa sintetica di Bed Of Stones, in percepibile dissonanza con la conduzione vocale di Fornasari, in una modesta sciabolata alt rock: parimenti, la pentatonica scordata di No Need fa da cornice ad una filastrocca un po sciocca, facilmente dimenticabile. Tuttavia, per la tenacia con cui, allatto pratico, vengono costantemente smontati e demoliti i presupposti mentali, Inflamed Rides merita un plauso. Gli O.R.k. saranno in tour a partire dal prossimo febbraio: dovessero passare dalle vostre parti, fate in modo di non perderveli.
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